a cura della 5C dell' Istituto Comprensivo "Bruno de Finetti" Roma

LA STORIA DEL TELEGRAFO

Il telegrafo è un sistema di comunicazione a distanza basato su codici convenzionali per trasmettere lettere, numeri e segni di punteggiatura. La comunicazione per mezzo del telegrafo è definita telegrafia.

L’antichità

La necessità di comunicare è sempre stata presente in ogni civiltà ed in ogni epoca. Già gli antichi greci impiegavano falò per comunicare. Per la comunicazione diurna sono stati impiegati segnali sonori: sia di strumenti a fiato (corni) che di percussioni (tamburi, tam-tam). Per distanze ancora maggiori sono stati impiegati segnali di fumo (comunemente associati ai nativi americani).

Al tempo dell’Antica Roma operò una fitta rete di corrieri che trasportavano, lungo le strade consolari, tavolette di cera con incisi messaggi.

Un altro mezzo, particolarmente usato in ambito militare in diverse epoche, fu il piccione viaggiatore.

L’origine della parola telegrafo

Coniata nel mese di aprile del 1793, la parola è legata all’avventura dei fratelli Chappe.

Prima della Rivoluzione francese, le informazioni viaggiavano ancora alla velocità dei cavalli. Nel 1793, venne offerta ai Francesi la possibilità di comunicare in modo rapido ed a grande distanza, di conoscere in brevissimo tempo gli eventi accaduti, di trasmettere ordini, di fare annunci.

L’inventore di questo nuovo modo di comunicare fu un certo Claude Chappe (1763 – 1805), fisico, da Brulon nella Sarthe. All’invenzione si attribuì il nome di tachigrafo, in seguito “telegrafo” dal greco tele graphein, tele – lontano e graphein – scrivere.

Il telegrafo ottico Chappe

Una stazione Parigina del telegrafo Chappe.

Verso la fine del XVIII secolo Claude Chappe e il fratello lavorarono allo sviluppo di un sistema telegrafico basato su una catena di segnalatori. Nel 1793 presentarono al pubblico il modello definitivo di telegrafo ad asta, così definito in quanto su una torre era installato un braccio rotante che portava alle estremità due bracci minori; il tutto era manovrabile per assumere configurazioni standardizzate corrispondenti a lettere, numeri e ordini di servizio. Da una postazione successiva, distante diversi chilometri, un addetto dotato di cannocchiale riceveva il messaggio e contemporaneamente lo ripeteva in modo che lo si vedesse dalla stazione successiva.

A seconda della posizione assunta dai vari bracci, si potevano ottenere ben 196 segnali. Assistendo ad una dimostrazione sul suo funzionamento, Robespierre e gli altri capi della rivoluzione francese ne riconobbero la potenziale utilità nella guerra in cui erano impegnati.

Chappe redisse un particolare codice: un vocabolario di 92 pagine, ciascuna contenente 92 termini ognuno contrassegnato da un numero d’ordine. Il primo segnale emesso dal telegrafo indicava la pagina del vocabolario, il secondo il numero associato alla parola di quella pagina. In questo modo, due soli segnali erano sufficienti per trasmettere 92 x 92 (8464) parole. Oltre al dizionario terminologico ne esisteva anche uno fraseologico: anch’esso costituito da 92 pagine ognuna delle quali contenente 92 frasi numerate (le frasi appartenevano al linguaggio di Esercito e Marina). Per utilizzare il dizionario terminologico, erano sufficienti tre segnali: il primo indicava che si doveva utilizzare il dizionario fraseologico, il secondo il numero di pagina, il terzo il numero associato alla frase della pagina. In questo modo, con un numero esiguo di segni, era possibile trasmettere un gran numero di messaggi.

Per trasmettere, l’operatore prendeva posto in un piccolo vano situato sotto il tronco di sostegno ed eseguiva il segnale su un modellino del telegrafo stesso: grazie ad un sistema meccanico di leve, i movimenti venivano trasferiti al semaforo. Mentre il trasmettitore azionava il braccio in questo modo, un osservatore munito di cannocchiale riceveva il messaggio.

Questo telegrafo ottico sveltì notevolmente le comunicazioni e le rese più sicure: era infatti praticamente impossibile decifrare un dispaccio del telegrafo Chappe non conoscendone il codice. In seguito furono usate solo 49 combinazioni di posizione diverse a cui corrispondevano tutte le lettere dell’alfabeto, i numeri da 0 a 9, e un certo numero di messaggi convenzionali.

Nel periodo napoleonico e della Restaurazione il sistema si sviluppò sempre di più in tutta l’Europa: nel 1840 solo in Francia la rete di semafori era lunga oltre 4000 Km. Per inviare il segnale da una stazione all’altra erano necessari 6 secondi, quindi per attraversare le 120 stazioni disseminate sulla tratta Parigi – Tolone occorrevano 12 minuti, anche perché gli operatori conservavano il segnale per circa 30 secondi. Il sistema, pregevolissimo dal punto di vista dell’economicità di trasmissione, aveva tuttavia dei difetti: era infatti inutilizzabile in caso di scarsa visibilità (nebbia, pioggia, riverbero del sole, …).

Due anni dopo anche lo scienziato tedesco Franz Karl Achard costruì un telegrafo ottico da campo con relativo codice che provò fra Spandau e Berlino.

L’Ottocento ed i primi esperimenti di telegrafia elettrica

Fino alla prima metà del XIX secolo la corrispondenza era esclusivamente cartacea ed era recapitata dai servizi postali. Le missive viaggiavano su regolari servizi di corriere, che avevano tratto beneficio dallo sviluppo della rete di strade postali nel Settecento. I tempi però erano lunghi, si parlava di giorni, settimane o anche mesi per la corrispondenza intercontinentale.

La richiesta di comunicazione era elevata e diversi studiosi ed inventori si erano cimentati nell’impresa, ma con i risultati più diversi.

• Il telegrafo di William Fothergill Cooke e Charles Wheatstone:

Cooke in tre settimane riuscì a costruire un telegrafo ad aghi: era formato da tre aghi circondati da bobine e azionato da tre circuiti separati di sei fili. Ha poi cercato un collaboratore, trovato in Wheatstone, con cui ha sviluppato il primo telegrafo elettrico britannico, installato con problemi di isolamento (i conduttori erano isolati con cotone e inseriti in tubi di ferro, successivamente installati su pali di ferro con isolante in vetro) fra le stazioni ferroviarie Londinesi di Camden e Euston distanti circa 2,4 km.

• Il sistema a tastiera di David Edward Hughes:

Hughes sviluppò un telegrafo atto a semplificare la decodifica dei telegrammi di Morse. Egli elevò la velocità di trasmissione a più di 1500 parole all’ora. L’apparecchio ricevitore e quello trasmettitore erano dotati di un sistema a orologeria ed erano messi in moto contemporaneamente da una ruota. Un impulso elettrico in arrivo, mediante un opportuno sistema di bobine, leve e contatti, faceva sì che la ruota si bloccasse in corrispondenza del carattere richiesto che veniva impresso sulla carta.

• Il sistema Meyer

Il telegrafo Meyer usava un alfabeto convenzionale analogo al Morse, ed era costituito da un apparato trasmittente e da uno ricevente, regolati da uno strumento di sincronismo. Inoltre si avvaleva anche di un metronomo che indicava all’operatore il momento preciso in cui abbassare i tasti: il trasmettitore era infatti composto da 4 tastiere con 8 tasti, 4 bianchi e 4 neri, ciascuna.

• Il telegrafo Baudot

Baudot ideò il sistema multiplo stampante antesignano delle telescriventi.

• Il pantelegrafo dell’abate Giovanni Caselli

Il pantelegrafo era un dispositivo di telecomunicazione in grado di trasmettere immagini statiche in modo simile all’odierno telefax. Nell’apparato trasmittente il disegno da inviare era tracciato su un foglio metallico con un inchiostro elettricamente isolante. Una volta essiccato l’inchiostro, un pennino collegato alla linea telegrafica esplorava tutto il foglio riga per volta, chiudendo il circuito dove l’inchiostro era assente ed aprendolo in corrispondenza dell’immagine. Nell’apparato ricevente era riprodotto lo stesso percorso di scansione del pennino, che in questo caso esplorava un foglio di carta trattato chimicamente (con ferrocianuro di potassio). Dove si aveva passaggio di corrente elettrica avveniva una reazione elettrochimica che provocava l’annerimento della carta. Al termine della lunga scansione si otteneva una riproduzione del disegno originale.

I due apparati (ciascuno in grado di operare sia da trasmettitore che da ricevitore) dovevano naturalmente muoversi in perfetta sincronia. Per questo motivo il meccanismo di ciascuna unità era mosso da un pendolo alto circa due metri e mosso da due elettromagneti, la cui oscillazione era sincronizzata per mezzo di impulsi elettrici inviati sulla stessa linea di trasmissione.

Il telegrafo elettrico Morse

Negli anni quaranta del 1800 il successo arrivò finalmente per Samuel Morse, che inventò un sistema telegrafico elettrico impiegante un unico filo, ed inventò uno speciale codice, il Codice Morse.

Il semplice codice Morse consentiva di trasmettere messaggi inviando impulsi elettrici lungo un cavo. L’apparecchio di Morse, utilizzato nel 1844 per inviare il primo telegramma pubblico, era azionato da un manipolatore elettrico che lasciava passare la corrente quando veniva premuto e la interrompeva al rilascio. L’originale ricevitore Morse era dotato di una punta scrivente controllata da un elettromagnete che scriveva su un nastro di carta scorrevole. I segni tracciati dalla punta, vale a dire punti e linee, dipendevano dalla durata della pressione sul pulsante del manipolatore.

Immagine del primo messaggio inviato tramite telegrafo da Morse

Morse riuscì a brevettare la sua invenzione negli Stati Uniti ed ottenere il supporto del governo e il 24 maggio 1844 si ebbe la prima trasmissione ufficiale tra le città di Washington e Baltimora.

Mentre stava sperimentando il suo strumento, Morse si rese conto che i segnali potevano essere trasmessi solo a circa 30 km di distanza: oltre questo limite diventavano troppo deboli per essere registrati. Con l’aiuto dei suoi collaboratori, allora, mise a punto un’apparecchiatura a relè consistente in un commutatore azionato da un elettromagnete, che poteva essere collegato alla linea telegrafica a 32 km di distanza dalla stazione trasmittente, in modo da ripetere automaticamente i segnali, ritrasmettendoli per altri 32 km. Ogni impulso, entrando nella bobina del magnete, attirava una lamina (armatura), che chiudeva un circuito indipendente alimentato da una batteria. Questo movimento inviava alla linea un nuovo impulso di corrente, che a sua volta azionava altri relè fino a che il messaggio non raggiungeva il ricevitore.

I nodi della rete, gli uffici telegrafici intermedi (Relè), provvedevano ad instradare i messaggi sulle giuste tratte fino a destinazione. Da notare che il lavoro veniva svolto a mano: i messaggi ricevuti erano letti e, in base alla destinazione, consegnati all’impiegato che li ritrasmetteva sul tratto successivo. Il sistema venne parzialmente automatizzato con l’introduzione del nastro perforato e dei trasmettitori automatici.

In breve tempo il sistema cominciò a diffondersi in ogni continente formando una fitta rete, grazie anche a ulteriori perfezionamenti quali l’introduzione degli isolatori in vetro o ceramica, il filo di rame al posto del ferro ed il sistema duplex, che consentirono di aumentare la lunghezza delle tratte ed aumentarne l’efficienza. Si formò anche una classe di operatori specializzati, alcuni dei quali arrivavano a digitare il codice Morse ad una velocità di 80-100 caratteri al minuto.

A causa dell’alto costo di realizzazione e funzionamento delle linee telegrafiche, ben presto furono messi a punto diversi metodi per inviare più messaggi simultaneamente sulla medesima linea. Nella telegrafia duplex si poteva trasmettere simultaneamente un messaggio in ognuno dei due sensi, mentre la telegrafia quadruplex, introdotta nel 1874 da Thomas Edison, permetteva la trasmissione simultanea di due messaggi in ciascuno dei due sensi. Nel 1915 fu introdotta la telegrafia multipla, mediante la quale potevano essere inviati otto o più messaggi. In seguito a questi progressi e all’introduzione delle telescriventi, verso la metà degli anni Venti, il sistema telegrafico manuale di Morse fu gradualmente sostituito da metodi di trasmissione automatici via radio e via cavo.

Oltre ai messaggi privati, sulla rete telegrafica viaggiavano le notizie dei corrispondenti ai giornali: è l’epoca in cui nascono le agenzie di stampa, prime fra tutte la Reuters.

In Italia l’introduzione del sistema telegrafico avvenne nel 1852, nel Regno delle Due Sicilie.

Il cavo sottomarino

Mappa di collegamenti telegrafici intercontinentali

Le reti, per quanto estese, coprivano però solo la terraferma: la comunicazione tra continenti avveniva ancora via nave. I telegrammi giungevano all’ufficio postale del porto, qui venivano trascritti su carta, condotti a destinazione per mare e qui di nuovo telegrafati fino a destinazione. E il viaggio poteva richiedere settimane.

Il primo esperimento di posa di un cavo sotto il mare venne effettuato nel 1845 all’interno della baia di Portsmouth dalla ditta S.W. Silver & Company. Il cavo era lungo un miglio e isolato con gomma naturale (guttaperca). Nel 1850, ad opera della ditta Submarine Telegraph Co venne posato il primo cavo attraverso La Manica da Dover a Calais, ma rimase operativo per soli tre giorni, fino a che non fu tranciato per errore da un pescatore.

Negli anni seguenti si sviluppò una rete di cavi sottomarini tra le coste europee e mediterranee, sotto i canali, tra le isole e anche sotto alcuni grandi fiumi. Nel contempo migliorava la tecnologia dei conduttori e dei rivestimenti, nonché il know-how relativo alla posa e riparazione. Furono allestite navi speciali adibite al ripescaggio e riparazione dei cavi.

In Italia il primo cavo sottomarino fu tra Calabria e Sicilia nel 1852 e nel 1854 furono realizzati tra le isole, Corsica e Sardegna.

Gli stati del Commonwealth britannico furono interconnessi da una fitta rete, ed in particolare si ricorda la lunga tratta sottomarina Londra-Bombay via Porthcurno, Gibilterra, Malta e Suez.

Mancava ancora un tassello fondamentale: il collegamento tra Europa e Nord America attraverso l’oceano Atlantico. Questa opera fu una vera e propria epopea, un’impresa di estrema complessità tecnica ed amministrativa. Il considerevole costo fu coperto con emissioni di obbligazioni e con contributi pubblici.

Il primo tentativo fu effettuato nel 1858 tra Irlanda e Terranova, 2.200 chilometri di cavo posati da due navi salpate dalle coste e destinate ad incontrarsi a metà strada. I lavori furono ostacolati da molte difficoltà e furono interrotti più volte. Dopo la trasmissione del primo messaggio fra la regina Vittoria d’Inghilterra e il presidente degli Stati Uniti James Buchanan, il cavo si guastò.

Il collegamento definitivo fu realizzato tra il 1865 e il 1866 dalla ditta Atlantic Telegraph Co, utilizzando il transatlantico Great Eastern, partito da Valentia Island, riadattato come nave posacavo. Nel primo tentativo di posare il cavo, questo si spezzò durante il viaggio; la seconda volta il Great Eastern riuscì a raggiungere Trinity Bay e completare il collegamento. All’epoca erano trasmessi giornalmente 3.000 messaggi, in media, al costo di 5 dollari per parola. Europa ed America potevano finalmente comunicare in tempo reale.

La telegrafia attraverso i migliaia di chilometri di cavo atlantico è però ben diversa da quella ordinaria; il segnale risulta enormemente attenuato come descritto dalla legge di Ohm e gli impulsi dilatati nel tempo e confusi a causa di induttanza e capacità del cavo. La trasmissione doveva essere quindi molto lenta e la ricezione effettuata con sensibili galvanometri. Diversi ingegneri operarono per migliorare la tecnica della telegrafia sottomarina, uno tra i quali fu Michael Pupin, che diede il nome alla tecnica della pupinizzazione.

Nonostante l’avvento della radio e dei satelliti il cavo sottomarino è ancora oggi ampiamente utilizzato.

La telegrafia senza fili

I primi lavori di telegrafia senza fili furono effettuati da Nikola Tesla nel 1891. Nel 1893 descrisse chiaramente tutti i componenti di un sistema radio formato da quattro circuiti sintonizzati. Nel 1897 brevettò un sistema di “trasmissione di energia senza fili” che “senza alcuna modifica” serviva anche per la trasmissione di segnali radio e che conteneva le basi di ogni sistema radio poi sviluppato. Nel 1897 Guglielmo Marconi presentò il brevetto della radio ed entro il 1907 vennero stabilite le prime comunicazioni transoceaniche sufficientemente affidabili. Le prime radio non erano ancora in grado di trasmettere la voce ma erano più idonee ad inviare semplici segnali acceso/spento, quindi ideali per il codice Morse. Uno svantaggio dei primi sistemi radio era l’assenza della sintonia e quindi dei canali. Qualunque segnale trasmesso veniva ricevuto da tutte le stazioni a portata di segnale, con gravi problemi di riservatezza e volume di messaggi inviabili. In compenso era evidente la possibilità di installare una stazione anche sulle navi, cosa che ha permesso la trasmissione della richiesta di soccorso da parte del Titanic, captata dal Carpathia, che ha così potuto intervenire in soccorso. Questo evento disastroso ha reso evidente l’utilità del mezzo radiotelegrafico in mare, il cui uso è stato disciplinato per la prima volta dalla conferenza internazionale di Londra del 1914 sulla sicurezza marittima.

La telescrivente

La continua ricerca volta ad aumentare la velocità delle trasmissioni riducendo nel contempo i costi ha portato allo sviluppo, negli anni venti, della telescrivente. Si trattava di una macchina simile alla macchina per scrivere, su cui l’operatore componeva il testo da inviare. I caratteri digitati venivano automaticamente codificati secondo un codice a cinque bit, il codice Baudot. Il testo ricevuto veniva stampato su un foglio di carta. Negli anni trenta iniziò a svilupparsi una rete di telecomunicazione specifica per le telescriventi, in grado di commutare automaticamente le comunicazioni: la rete Telex.

La telegrafia oggi

Al giorno d’oggi la telegrafia è passata in secondo piano, retrocessa dall’avvento del telefono prima e del digitale poi.

A partire da 1º febbraio 1999 l’utilizzo della telegrafia Morse non è più obbligatoria in ambito marittimo, in favore della tecnologia digitale GMDSS. L’utilizzo di questo mezzo è però portato avanti con passione dai radioamatori, i quali sostengono che questa tecnologia è molto efficace rispetto al parlato nelle comunicazioni a lunga distanza, anche con trasmettitori di bassa potenza.

Naturalmente è sempre possibile andare all’ufficio postale ed inviare un telegramma. Questo però da molti decenni non è più trasformato in codice Morse da un operatore, ma è composto su una tastiera ed inviato, fino al 2001, con il sistema Telex, oggi con il servizio Teltex di Poste Italiane.

Tecnologia del telegrafo elettrico

Il circuito più semplice di telegrafo comprende un generatore di corrente (es. batteria), un pulsante in grado di chiudere il circuito quando premuto, un filo di trasmissione ed un elemento rivelatore del segnale, che può essere una lampadina oppure un campanello. Il filo di ritorno per chiudere il circuito è sostituito dalla terra, grazie a due picchetti infissi nel terreno alle due stazioni.

Il tasto manipolatore

Il tipo più semplice di tasto telegrafico è un pulsante che premuto collega la fonte di energia alla linea, inviando un impulso. In posizione di riposo la linea è automaticamente collegata all’apparecchio ricevitore. Esistono anche tasti automatici dotati di due levette in grado di generare il punto e la linea con durata precisa.

Il trasmettitore automatico da nastro perforato

Nelle stazioni di smistamento venivano impiegati speciali trasmettitori automatici in cui era possibile inserire un nastro perforato con inciso il messaggio. Questo sistema offriva maggiore precisione e velocità dei segnali rispetto alla digitazione manuale nonché la possibilità di parallelizzare il lavoro per ottimizzare l’utilizzo delle linee maggiori. Con una speciale macchina simile ad una macchina per scrivere, diversi impiegati preparavano i nastri, che poi erano accodati nel trasmettitore per essere inviati senza interruzione.

La stampante

Un elettromagnete attira una piccola ancora metallica solidale con un pennino inchiostrato, il quale può toccare un nastro di carta fatto avanzare da un meccanismo a molla o elettrico. In questo modo si ottiene su carta la rappresentazione visiva delle linee e dei punti.

Il rivelatore acustico

Il più semplice ricevitore di tipo acustico è costituito da un elettromagnete in grado di attirare una piccola ancora. Il semplice rumore prodotto consentiva ad un orecchio allenato di decifrare il messaggio. Questo sistema era in genere preferito dagli operatori rispetto alla stampante, per cui fu perfezionato con l’aggiunta di cassa di risonanza in legno per aumentare il volume sonoro. In epoca moderna si utilizzano segnalatori acustici elettronici che emettono un suono acuto .

Il rivelatore ottico

Il segnale in arrivo attraverso un cavo sottomarino era troppo attenuato per azionare un rivelatore sonoro o una stampante. Per questo compito si utilizzava inizialmente un galvanometro ottico a torsione. In pratica uno specchietto solidale con un pezzo di ferro era sospeso ad un filo e collocato all’interno di un grosso solenoide. Il debole campo magnetico indotto dalla corrente del segnale era in grado di ruotare leggermente lo specchio. Dagli spostamenti di un raggio luminoso riflesso dallo specchio un operatore era in grado di decodificare il testo.

Relè ripetitore della metà del XX secolo

I rigeneratori ed i ripetitori

Il problema dell’amplificazione dei segnali per la trasmissione a distanza fu affrontato con apparecchi ripetitori, in pratica relè molto sensibili che a loro volta agivano da tasti trasmittenti per la tratta successiva. Apparecchi più complessi, i rigeneratori, erano in grado di ricostruire un segnale deteriorato anche nella forma degli impulsi.

CHI ha INVENTATO il TELEFONO?

di Lucia Montauti

Talenti sommersi: Innocenzo Manzetti inventore del telefono. Un nuovo Nikola Tesla, genio ignorato e deriso, ce ne parla Luca Poggianti, ricercatore.

Il nome di questo geniale inventore, ancora sconosciuto, sembra ora avere il risalto che merita anche a livello nazionale, si è parlato di lui in una non lontana puntata della trasmissione Voyager su RaiDue.

Alla domanda “chi ha inventato il telefono?” oggi ogni italiano risponderebbe senza esitazione: Antonio Meucci. La questione non ha più alcun rilievo economico né alcun interesse per gli eredi, è quindi un dibattito limitato all’aspetto culturale e scientifico e proprio per questo è necessario rendere giustizia a chi ha veramente realizzato l’invenzione dell’apparecchio che, più di tutti, ha modificato le abitudini dell’uomo: Innocenzo Manzetti.

Che fosse lui il primo vero inventore del telefono lo si sostiene da sempre nella sua terra natale: la Valle d’Aosta. In questi ultimi anni le approfondite ricerche di due studiosi valdostani – Mauro Caniggia Nicolotti e Luca Poggianti – hanno contribuito a mettere un po’ di ordine nell’intricata vicenda, riportando alla luce la documentazione che prova la priorità di Manzetti nell’invenzione.

Se la priorità del fiorentino Antonio Meucci nei confronti di Alexander Graham Bell è stata affermata anche dagli americani nel 2002, che dire del riconoscimento pubblico che lo stesso Meucci fece dell’invenzione di Manzetti nel 1865, cioè sei anni prima che vedesse la luce l’apparecchio telefonico di Meucci? Non è solo l’aspetto temporale a stabilire la priorità del valdostano, ma è il confronto tecnico dei due telefoni a chiarire a quale punto fossero i due inventori italiani. Mentre Manzetti nell’estate del 1865 aveva presentato al pubblico il suo telefono con cui si poteva già parlare liberamente in una rudimentale cornetta, Meucci era ancora intento a condurre esperimenti tanto che per parlare si doveva tenere tra i denti una lamella e non era ancora possibile udire parole chiare. Emblematica, quindi, l’affermazione di Meucci fatta nell’ottobre del 1865 di fronte alla notizia dell’invenzione di Manzetti che aveva nel frattempo fatto il giro del mondo: “Io non posso negare al Sig. Manzetti la sua invenzione…” “… e unendo le due idee si potrebbe più facilmente arrivare alla certezza di una cosa così importante”.

Affermazione che, oltre a riconoscere il lavoro del valdostano, implicitamente conferma che a quel tempo Meucci non era ancora arrivato “alla certezza” del suo telefono.

Non si vuole disconoscere in questa sede l’invenzione di Meucci, ma solamente ristabilire la verità temporale tra i due inventori. Manzetti e Meucci, infatti, ebbero percorsi di vita per molti versi simili, nelle loro sfortune e nello scarso riconoscimento ottenuto dal mondo scientifico.

Innocenzo Manzetti ebbe una vita travagliata, distante da quella dell’americano Bell, ricco e “sponsorizzato” dai maggiori potentati economici statunitensi.

Nato ad Aosta nel 1826 da una famiglia di commercianti piemontesi emigrati in Valle alla ricerca di maggiori fortune, Manzetti dimostrò fin da giovanissimo la sua inclinazione per le arti meccaniche e per gli studi scientifici. Riuscì a diplomarsi geometra a Torino, ma solo perché riuscì a pagarsi gli studi svolgendo ogni tipo di lavoro.

Ritornò a vivere ad Aosta, dove lavorò per tutta la sua, purtroppo breve, esistenza. Genio eclettico, amava sperimentare in ogni campo. Oltre al telefono, a lui si debbono numerose invenzioni, che attiravano non solo i concittadini, ma l’interesse del mondo scientifico dell’epoca. Il suo laboratorio era meta di curiosi e scienziati. Anche se di carattere schivo e riservato, Manzetti era però molto disponibile con chiunque. Non negava a nessuno l’ingresso nel suo laboratorio, né spiegazioni su ciò che stava creando.

Tra i suoi principali ritrovati si ricordano l’automobile a vapore (realizzata 16 anni prima di quella di Bollé, ancora ritenuta a torto la prima ufficiale vettura del genere), la macchina per la pasta (brevettata nel 1857: macchina ancora oggi usata per fare la pasta in casa) e soprattutto l’automa suonatore di flauto (una sorta di robot a grandezza naturale, che gli storici ritengono il primo motore pneumatico al mondo). E’ l’opera forse più importante di Manzetti, perché è grazie ad essa che arrivò a creare il telefono. Fu infatti nel tentativo di dare la parola a distanza al suo automa che Innocenzo studiò e realizzò la trasmissione a distanza della parola per mezzo dell’elettricità.

Il problema – non secondario – del telefono di Manzetti fu il mancato brevetto. Per comprendere perché non compì mai questo passo bisogna comprendere il contesto in cui viveva.

Innanzitutto la Valle d’Aosta dell’epoca era molto diversa dal “carrefour” d’Europa quale viene ritenuta oggi. Posta al confine del nascente Regno d’Italia, la Valle veniva considerata un pessimo esempio di patriottismo, ancora schiava della lingua francese parlata dalla quasi totalità della popolazione dell’epoca (Manzetti stesso era di madrelingua francese). Poche le vie di comunicazione, del tutto assente la ferrovia (che arriverà solo nel 1886), la Valle era isolata dai contatti con l’intellighenzia italiana ed europea.

In questo disagiato contesto sociale, politico ed economico, Manzetti dovette affrontare anche condizioni economiche difficoltose che mai gli permisero di coltivare il genio come avrebbe meritato. I genitori non poterono dargli che l’istruzione primaria e solo la costanza e la passione gli permisero di apprendere.

Nemmeno in età adulta ebbe migliore fortuna. Si sposò relativamente tardi e le sue uniche due figlie femmine morirono alla tenera età di 2 e 6 anni. Già bersagliato da una salute cagionevole, il dolore della perdita della seconda figlia fu probabilmente tra le cause che lo portarono alla morte nel 1877, a soli 51 anni.

E’ chiaro che in questa situazione Manzetti probabilmente non si rese pienamente conto della portata rivoluzionaria del suo apparecchio telefonico. I brevetti costavano molto sia per il deposito, sia per il mantenimento successivo e l’unica esperienza che Innocenzo aveva avuto in merito (la macchina per la pasta) non gli aveva certo procurato guadagni di sorta (la macchina era stata improvvidamente venduta per pochi soldi ad una società inglese).

Anche il contesto politico di quegli anni era molto particolare. Si pensi che il telefono di Manzetti fu accolto dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Matteucci come inutile, destinato ad un sicuro insuccesso e persino pericoloso per la sicurezza pubblica (l’assenza del funzionario pubblico, presente invece nel telegrafo, avrebbe permesso comunicazioni tra la gente senza alcun controllo).

Erano anche anni di grande contrapposizione tra il mondo cattolico e quello liberale e Manzetti stava “dalla parte sbagliata”: cattolico, Innocenzo era difeso dal mondo clericale valdostano, il suo miglior amico era il canonico Edouard Bérard. Questo aspetto ebbe un ruolo decisivo soprattutto nei decenni successivi, perché la storiografia ufficiale sposò la causa di Meucci, perfetto rappresentante patriottico del giovane Regno d’Italia, in quanto incarnava il ruolo del povero emigrante liberale costretto a fuggire dall’Italia a causa dei moti pre-unitari, amico di Garibaldi (che ospitò anche per due anni nella sua casa di New York) e derubato della sua invenzione dai potentati economici statunitensi.

Al di là di ogni analisi scientifica e storica, la figura di Meucci era certamente più suggestiva e “politically correct” per quegli anni rispetto a quella di uno sconosciuto inventore di lingua francese, abitante in una periferica terra “così pessima rappresentante della giovane Italia”.

Manzetti scomparse dopo solo un anno dal brevetto di Bell, quando il telefono non era ancora giunto in Italia e quando ancora non ci si era resi conto delle infinite ricchezze che avrebbe potuto procurare e che procurò al suo legittimo inventore.

Gli eredi, attratti dalla promessa del pagamento di una somma esorbitante per l’epoca che avrebbe potuto cambiare il corso della vita della moglie e del fratello di Manzetti, tre anni dopo la morte di Innocenzo vendettero agli americani, presentatisi come emissari di Bell, tra i quali H. H. Eldred, tutto quanto era in loro possesso in relazione all’invenzione del telefono. Questo condannò definitivamente Manzetti all’oblio scientifico. Appena rientrato in America H. H. Eldred brevettò, a suo nome, quella che venne definita una miglioria del telefono. Di costoro si persero le tracce, vani furono i tentativi successivi di rintracciarli e nessuna somma fu mai incassata.

Cosa spinge ad ignorare il nuovo? La paura del nuovo stesso o la necessità di distruggere i talenti prima che possano volare troppo in alto da creare, con le loro ali, ombre intorno e sopra di noi?

In questo periodo, in cui nascono e crescono nuovi progetti e nuove professioni, chiediamoci di fronte ad una persona nuova se sia il nostro intelletto oppure soltanto ego e paura a parlare.

A volte gli inventori realizzano qualcosa di grandioso di cui non sanno prevederne ogni possibile sviluppo ma sanno che funzionerà, questo valutiamo, perché il mondo poi non ci ricordi per sempre come figli dell’ignoranza.

In ultima analisi: dobbiamo e possiamo cambiare il sistema di brevetti? E’ giusto che la storia ed i meriti vadano a chi può permettersi l’accesso ad una somma, talvolta importante, oppure possiamo immaginare un nuovo iter che porti fama e denaro a chi potrà utilizzarli per portare avanti conoscenza, cuore e passione in questo mondo troppo legato al denaro e poco all’ingegno?

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